In questo tempo particolare, in cui più che viaggiare, si sogna di poterlo fare ancora, c’è un percorso che non ha bisogno di mezzi di trasporto per portarci lontano. Si tratta del viaggio che possiamo fare in noi stessi per scoprire o riscoprire le “terre lontane” con cui abbiamo perso contatto, presi dai ritmi quotidiani.
Lo scopo di un viaggio interiore, non è l’introspezione, anche se un pochino occorre osservare e osservarsi. Si tratta piuttosto di migliorare la qualità di percezione della realtà visibile e invisibile, lasciandola risuonare in noi finché non diventi rivelatrice di senso e generi stupore.
Il filosofo Maurice Merleau-Ponty afferma che visione e movimento sono strettamente legati: noi conosciamo o abbiamo esperienza della realtà che osserviamo, quella su cui posiamo lo sguardo. Per vedere una determinata realtà occorre una certa intenzionalità, occorre guardarla. Analizzando il processo creativo del pittore, Merleau-Ponty afferma:
Instrument qui se meut lui-même, moyen qui s’invente se fins, l’oeil est ce qui a été ému par un certain impact du monde e le restitue au visible par les traces de la main.1
L’osservazione dell’artista non è distratta, ma richiede una certa profondità per generare emozione. L’impatto con la realtà, passa dalla percezione. Sia nel quotidiano, che nella vita spirituale, tante volte funzioniamo con il “pilota automatico” e non siamo presenti né a noi stessi, né agli altri o a Dio. Come a livello umano ci si può abituare alla bellezza di un paesaggio e non vederla più, così in ambito di fede possiamo dare talmente per scontato Dio, da non coglierne più la Bellezza o l’Amore.
Anticamente, la modalità di percorrere un viaggio verso sé stessi e verso di Lui era il pellegrinaggio. Non dobbiamo pensare a quelli organizzati oggi, con tutte le comodità e in sicurezza. Il pellegrinaggio si faceva essenzialmente a piedi, con pochi mezzi e un esiguo bagaglio. Poteva durare mesi, se non anni, con l’incertezza di arrivare perché la malattia e i pericoli potevano arrestarne la corsa. Il pellegrinaggio rivestiva anche un carattere penitenziale: in quanto peccatori, si cercava il perdono di Dio, la Sua Misericordia. Permetteva inoltre di attraversare paesi sconosciuti e incontrare (o scontrarsi) con altre culture. Alcune volte questo percorso coincideva con una conversione del cuore, mentre altre finiva per mancanza di motivazione o restava solo un atto superficiale, esterno.
In questi giorni leggo di un viaggio particolare, quello di Paolo Rumiz2 durante il lockdown in casa propria. Dal suo diario emerge un ventaglio di emozioni e pensieri. Famiglia, amore, amicizie, lavoro, esperienze, gioie e preoccupazioni, sguardo sul mondo, contemplazione della natura, preghiera, domande, contingente ed eterno… Tutto ciò che costituisce la vita di un uomo.
Nel nostro viaggio interiore, non serve fare astrazione di noi stessi, tutto ciò che ci costituisce è quanto esponiamo a Lui, che ha già dato la vita per noi con tutta la nostra complessità, bellezza e imperfezione passata, presente e futura. Pregare è “mettersi in Presenza”, fissare lo sguardo su di Lui che è Presente nelle cose della vita, negli affetti, in noi, negli altri e nel mondo visibile e invisibile. Il nostro percorso potrebbe essere lungo come quello del pellegrino, forse durare per sempre, perché ci sono attimi di emozione profonda, di rivelazione, ma ciò di cui facciamo esperienza è solo parte di una realtà che ci supera e trascende. Realtà di cui non cogliamo mai l’interezza, ma che ci attira a sé attraverso un Amore incondizionato.
La rivelazione ha i tratti caratteristici della bellezza: il suo primo attributo è la gratuità con la quale si dona; il secondo è che essa è gratuità d’amore. Lo statuto primo della bellezza è nel dono disinteressato e nell’atto d’amore. Il gesto d’amore è sempre bello. Qui si colloca il principio della bellezza di Dio: il dono supremo della propria vita per noi. Un dono d’amore è lo splendore del fondamento che ci commuove e seduce.3
1 Maurice Merleau-Ponty, L'Oeil et l'Esprit, Éditions Gallimard, 1964, p. 26 Libera traduzione dal francese: "Strumento che si muove da sé, mezzo che inventa il suo fine, l'occhio è ciò che si è commosso grazie a un certo impatto con il mondo e lo restituisce al visibile per mezzo dei tratti della mano". 2 cfr. Paolo Rumiz, Il veliero sul tetto, Feltrinelli, 2020 3 Ermes Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline, 2008, p. 12