Tempo di lockdown, tempo di letture… Fra le mie Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini di Michele Guerra (Raffaello Cortina Edizioni, 2020). La sua lettura, ancora in corso per la verità, ha ispirato questa riflessione che si spinge al di là del libro stesso.
Michele Guerra affronta il tema dell’utilizzo delle immagini (letterarie, fotografiche e cinematografiche) per descrivere l’indescrivibile, l’umanamente inaccettabile, il non senso della Shoah. Partendo dal principio che una rappresentazione realistica della tragedia sia impensabile e neppure possibile – in quanto rischierebbe di delimitarla entro confini che darebbero l’illusione di sapere tutto su questa realtà o d’altra parte favorirebbe un approccio voyeuristico della stessa – sviluppa un discorso teoretico sul ruolo delle immagini in particolare nel cinema.
Argomento che ritroviamo, in altri termini, anche nella storia dell’arte: le immagini hanno una possibilità duplice di lettura data da ciò che rappresentano e da ciò che evocano. Il limite nell’immagine invita ad andare oltre per cogliere ciò che non è detto e non si può dire, ma solo evocare.
Il limite nel caso della Shoah è che nessuna descrizione o immagine può davvero dire l’orrore vissuto da chi l’ha sperimentata personalmente, neppure la persona stessa. Non ci sono parole per questo.
Oltre il limite dello sguardo c’è una dimensione invisibile – ciò che non si può dire, né mostrare – che può affiorare in noi solo intuitivamente.
L’immagine deve negoziare la relazione tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è rimasto come traccia e ciò che costituisce la lacuna
La facoltà di cogliere intuitivamente l’inespresso o il non mostrato, va allenata in quanto richiede intenzionalità. In altri termini occorre voler posare lo sguardo al di là del limite. Si tratta di una disposizione interiore che scaturisce dalla contemplazione, dalla capacità di soffermare lo sguardo in modo prolungato.
Quando Jacques Maritain in L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia indaga sul processo creativo, afferma che l’artista coglie intuitivamente qualcosa della realtà visibile o invisibile, che traduce in opera. O almeno tenta di farlo, perché anche lui è confrontato al limite tra traccia e lacuna rispetto alla propria esperienza, bella o tragica che sia.
San Giovanni della Croce invece, per descrivere l’esperienza mistica nel momento in cui è confrontato al limite utilizza, da poeta quale era, l’espressione “un non so che”, che indica l’indicibile.
Credo che la duplice caratteristica delle immagini (visibile e invisibile) rifletta come, su più ampia scala, tutta la realtà debba essere guardata. Nella dimensione spirituale in particolare. la fede richiede di essere costantemente messa in moto (intenzionalità). “Je veux voir Dieu” dice un canto spesso ripreso nei gruppi di Taizé, voglio vedere Dio. Non basta “chiedere a Dio delle cose” o “fare delle cose per Lui”, occorre reciprocità, occorre attivare lo sguardo per poterlo incontrare, riconoscere e amare nel nostro quotidiano.
Citazione: Michele Guerra, Il limite dello sguardo, p. 66